«Zero più la firma», dicevano Dal Lago e Giordano: questo è il valore dell’opera d’arte contemporanea. Cos’altro ha subito la stessa sorte? Dana Thomas è una giornalista di moda, una giornalista, però, prima di tutto. Un giorno spende 500 dollari per un paio di pinocchietti di Prada. Mentre li indossa, si stracciano. Decide: parte. Starà via tre anni. Al suo ritorno scrive Deluxe – Come i grandi marchi hanno spento il lusso. Cos'è, innanzitutto, il lusso? Provenienza (storia/territorio + eccellenza) + esclusività. La formula è nota dai tempi dei Romani. Un esempio: il caffè che bevo non è un lusso. Soddisfa parte del requisito di provenienza (è eccellente), ma non ho idea di dove venga coltivato né da chi; peraltro lo possono produrre in molte aziende e vendere in qualunque torrefazione: non è esclusivo. Un altro esempio, meno chiaro: una mia amica vuole investire su un paio di Louboutin. Un marchio come quello ha una provenienza che è mito, ma ha l’eccellenza? Possiede esclusività? Insomma: le irresistibili Jazz pump con la suola rossa dove e da chi sono prodotte? Hanno davvero genoma parigino? Già perchè il prezzo del lusso, alto di regola, è uscito dalla formula: caro non significa più lussuoso, caro, quando si parla di grandi marchi, non è che una delle scelte arbitrarie di chi produce. Facciamo un altro esempio ancora, tratto dalla cronaca italiana recente: il marchio La Perla delocalizza, si dice verso i Balcani. Già a Roseto circa 80 persone dovranno lasciare il lavoro. La Perla, che è già una multinazionale, rimarrà un marchio del lusso? No: siamo sicuri che le nuove operaie potrebbero essere brave come le nostre italiane (l'eccellenza), la storia del marchio è già avvallata da un marketing di alto livello, ma la regione da cui provenivano le splendide creazioni della casa di Bologna era l’autentica garanzia dell'esclusività. Se si può produrre in altri parti del mondo, non è più un'esclusiva, appunto, in questo caso italiana. Il prezzo? Difficile che diminuisca. Ma apriamo il libro di Dana Thomas. Cosa scopriamo? Scopriamo che le famosissime monogram di Louis Vuitton non è che sono proprio fatte di pelle, che Miuccia Prada si chiama Maria Bianchi, che c’è chi vende portafogli di Armani contraffatti senza saperlo e che quelli che li comprano non ci credono, che “tradizione artigianale europea” significa produrre nell’ex Urss e in Turchia, che annacquano un profumo e magari a Vogue raccontano che la sua leggendaria formula era vecchia e superata, che un vecchio presidente di Chanel sosteneva che la pubblicità dell’alta moda “avrebbe significato svalutarla”, che quella borsa che avete pagato 1200 dollari è prodotta in Cina al costo di 120 dollari, che l’operaria che incolla i manici della vostra shopper completa due borse al minuto, che secondo un ad di Valentino “la qualità percepita è più importante di quella effettiva”, che Tom Ford pensa che “ormai i marchi di moda sono troppo accessibili”, che il taglio senza orlo e la rinuncia alla fodera non sono due innovazioni degli stilisti, ma due trovate dei contabili, che un completo di Valentino da più di mille euro è prodotto al Cairo e l’etichetta non lo dice, che esistono agenzie internazionali che vendono agli stilisti le idee dei giovani, che Burberry produce in Cina “grandi quantità di merce”, che la merce, pardon, il lusso, quelli che lo vendono lo chiamano “middle market”, che tra chi ispira quello che le riviste osannano a modello di eleganza c’è chi dice “se mi metto addosso questo scoperò alla grande”, che quel 100% seta sull’etichetta della vostra sciarpa serve solo a non indicare che magari quella seta non ha mai visto un baco, che con le borse finte ci comprano l’esplosivo, che Marc Jacobs «trova la contraffazione “fantastica”» perché vuol dire che ce l’ha fatta, che vendono a Parigi o a Milano merce prodotta da operai con le gambe legate alla sedia, che quando l’attrice famosa dice di adorare un marchio non è tenuta a dire che è pagata per dirlo: che recita, di fatto. In uno stile liscio, lineare, senza angoli, la biglia narrativa di Dana Thomas scorre un capitolo dopo l’altro, e non lascia ombre, né dubbi: dati, date, luoghi, nomi, ogni porcheria ha un’anagrafe dettagliata. E qualche sprazzo di prosa poetica (Dana Thomas sa scrivere), come la storia dei viaggi avventurosi dei “nasi” delle maison francesi. Di No logo si disse che “non valeva” perché Naomi Klein era sostanzialmente una no-gobal. Ma Dana Thomas è una che prende lo stipendio da chi paga anche Ann Wintour, è una che spende 2000 dollari per un cappotto: i consumatori le hanno dato retta. A cinque anni dalla sua pubblicazione si può dire che Deluxe abbia formato la nuova generazione di fashionisti, che non credono più al tikle down dei grandi marchi (con buona pace del pur lodevole tentativo di aprire ai giovani di Dolce&Gabbana di cui fra poche righe), ma a un bottom up nobile, glocal e modesto, mai più aristocratico. L’uscita di Deluxe sembra sarà ricordata come la fine della corsa iniziata nei primi anni Ottanta dai produttori del cosiddetto lusso. Ormai è semplicemente ingenuo credere loro. Alcuni degli effetti sul consumo, prima di tutto quello degli addetti ai lavori, sono sottili ma così evidenti che è facile ricordarli: non si legge più Conde Nast ma si visita The Sartorialist, a Spiga 2 sono entrati degli giovanissimi sconosciuti, il vintage è un fenomeno così potente da aver ispirato in tessuti, tagli e fogge le ultime due annate di sfilate (per non parlare di Mad men), il capo di un designer ha più significato di quello di uno stilista, avere un grande marchio indosso non è più lusso, è popolare, perciò l’esclusività si misura in termini di inclusività (Giusi Ferré sul Corriere della Sera, correva l’anno…2006!), i nuovi trendsetter nascono globalizzati e non sentono il bisogno di conquistare il mondo perché sono già cosmopoliti: il nuovo lusso sarà una nebulosa di marchi innumerevoli, artigianali e dinamici, e il made in è destinato a rinascere in una dimensione non spendibile su larga scala. Non si salva proprio nessuno? I migliori sì, come selezione darwiniana vuole. Qualche tempo fa un’amica diceva che con quello che costava un paio di Louboutin aveva fatto un weekend a Parigi: ora posso dirle che l’altra mia amica, quella che ha investito su Christian, camminerà dentro la Ville Lumière tutti i giorni, per anni. Grazie Dana!