Altro non è che il buon lavoro di un critico dell'arte militante. E in tempi meno sordi, un saggio così appuntito, forse addirittura rivoluzionario, avrebbe creato il composto scompiglio degli accademici, un certo clamore sulle terze pagine e una spontanea idolatria tra gli studenti di Belle Arti. E panico, quello sì, panico vero, tra i galleristi – già in crisi, peraltro. Che succede in questo Arte e artificio? Per capire quali novità introduce, e quali certezze scomunica, bisogna prima nicchiare sulla categoria del vulgus pecus. La definizione, terribile e carinissima, è dello stesso Fidolini. La contrazione culturale del costume e della società italiani ha trasformato gran parte dei nuovi fruitori dell'offerta artistica in una comitiva di pecorelle mal educate e pronte a correre di qua e di là per i musei in cerca dei pezzi più noti o, peggio, più reclamizzati, sfiorando così la superficie dell'esperienza dell'arte e limitandosi all’emergenza di ottenere lo status di presenza: una partecipazione di facciata e priva di significati. In più: la “privatizzazione” dell'arte nelle mani di festival, biennali e gallerie (con buona pace dei siti archelogici e dei vecchi musei) e la disposizione a basso costo di mezzi tecnici per operazioni artistiche (autentiche o pretese tali) compongono l'occasione irripetibile per i nuovi desertificatori culturali, e l'autoreferenzialità dell'arte contemporanea ne è il suo primo effetto: nefasta come la sua pretesa di immortalità (lo squalo di Hirst che fa la muffa). Prendiamo perciò la coda di vulgus pecus fuori dal Louvre e aggiungiamo il modello del nuovo artista egoriferito: il mercato dell'arte (che è per l'appunto un mercato) farà il resto. Approfittando della scarsa vigilanza culturale del suo pubblico e della presunzione all'infallibilità dei vecchi talenti ha trasformato nell'immaginario comune il termine capolavoro, facendone una coccarda di latta assegnabile all'intera opera di un artista purchè questo sia storicizzato come “grande”. Da Modigliani a Picasso, dei quali peraltro ogni lustro spuntano una cantina di nuove opere, da Delacroix a Caravaggio, fino ai modernissimi “asini dell'arte”, il più noto dei quali è forse Maurizio Cattelan: sono tutti “maestri”, e ogni loro tocco diventa capolavoro. Ed è in questo grottesco, fallimentare e assetato quadro che si innesta la modest proposal di Fidolini: analizzare gli ultimi duecento anni d'arte alla ricerca non solo dei soliti pregi, ma anche (e soprattutto e finalmente, aggiungiamo) delle crepe nei colossi della nostra storia. Un piccolo errore di prospettiva, una pennellata sbilenca, un colore non proprio giusto, dettagli forse: l'operazione però è rivoluzionaria. Ed è proprio nella indiscutibilità del criterio di giudizio scelto, la teckné appunto, che Fidolini ottiene ragione di scrivere. Umile e inarrestabile, offre una novità monumentale alla nostra cultura dell'arte: perché criticare i grandi vecchi fa sì che tutti i piccoli e i nuovi tremino un po' di più di fronte al parere del pubblico. Tollerare che qualunque colpo di pennello di un Picasso o di un Botticelli sia masterpiece crea dogma di fede dell'infallibilità dell'artista: un'arma comoda e puntuta per il mercato dell'arte attuale, che inventa i prezzi e introduce nelle gallerie qualunque fabbricatore di porcherie, semplicemente titolando l'artista e facendone così un golem di indiscutibile talento, qualunque cosa faccia. La bella molotov di Fidolini è tutta qui: interrogandosi sui miti fa sì che noi ci interroghiamo su cosa penseranno i posteri di tante bravate provocatorie e altrettanti scadenti allestimenti. Interrogare l'arte che sta sui libri permette a noi popolino di non credere più a tutte le stupidaggini che ci racconteranno molti, tra galleristi e grandi direttori di biennali, festival eccetera. Nel suo catalogo di Idee Chic Flaubert suggerisce: «Dire a proposito di un grande uomo: “È ridicolmente sopravvalutato!”. Tutti i grandi uomini sono sopravvalutati. Di grandi uomini non ce ne sono, peraltro». Fidolini ce lo ricorda, ma senza ironia, applicando il suo scetticismo colto all'arte storicizzata. Calcolando in partenza lo sconcerto dei critici, del pubblico e degli studenti si avvia sereno a decontaminare l'opera d'arte dalla sua aura barthesiana per lasciarla nuda e vera, vale a dire buona, ottima, sublime oppure mal eseguita, manchevole, difettosa. Tutto qui. Uno strumento pedagogico notevole, da acquistare, leggere, e ricordare ogni volta che visitiamo un'esposizione. Da regalare a chi dice di intendersene o abbandonare sulla scrivania del curatore di una galleria piena zeppa di vecchie scatole vuote. Letteralmente. In tempi così sordi, l’arte si aiuta anche così: con la guerriglia.